Nonostante se ne parlasse molto, non ho visto Tutta la vita davanti (2009) di Paolo Virzì (Ovosodo, Caterina va in città, La prima cosa bella), finché non ho lavorato in un call center. Conclusa quell'esperienza, infatti, ero curiosa di sapere se avevano ragione i detrattori o i sostenitori del film, che desideravo valutare serenamente, senza farmi condizionare da parere altrui. Di questa pellicola, prodotta da Medusa Film (Venuto al mondo, To Rome with love, Benvenuti al nord) e Motorino Amaranto (Tutti i santi giorni, L'estate del mio primo bacio, I più grandi di tutti), conoscevo la trama: sinceramente non mi aspettavo molto, temendo che la storia fosse infarcita di pregiudizi, esagerata nel descrivere i vizi di questa società indubbiamente un po' alla deriva. In principio non ho potuto fare a meno di confrontare la mia vera esperienza lavorativa con quella del film, commentando le somiglianze e le differenze a chi lo stava guardando con me. Poi ho saggiamente deciso di non focalizzarmi solo su quell'aspetto del film, per poterlo godere appieno nel suo insieme. Se inizialmente questa commedia amara mi è sembrata un po' scialba, senza mordente, ho dovuto presto ricredermi e al finale sono arrivata quasi senza fiato, tante erano state le emozioni che il film, sceneggiato dallo stesso Virzì insieme a Francesco Bruni (Ferie d'agosto, Baci e abbracci, My name is Tanino), mi aveva suscitato. In primo luogo sono rimasta sconcertata dall'infelicità generale che vi regna, una tristezza che avvolge ogni personaggio, ance quelli positivi, che sembra non dar loro nessuna possibile serenità. Un film così angosciante per il suo indubbio realismo -è quello che fa più male- o perlomeno ad esso vicino è Welcome (2009) di Philippe Lioret (Mademoiselle, Tue l'amour, Vache-qui-rit), l'intensa storia di Bilal, diciassettenne curdo che dopo aver percorso quattromila chilometri a piedi in cerca di un futuro migliore, con l'aiuto di Simon, insegnante di nuoto provato dalla separazione dalla moglie, attraversa la Manica a nuoto per impedire che la sua fidanzata sposi l'uomo anziano scelto per lei dalla sua famiglia per convenienza economica. Solo il finale di Tutta la vita davanti, con il suo significato, si avvicina a qualcosa come la speranza, la possibilità di redenzione, tramite l'affetto. Con la morte dell'amata madre, infatti, Marta, interpretata dall'attrice Isabella Ragonese (Viola di mare, Dieci inverni, Il giorno in più), sembra aver toccato il fondo: orfana, disoccupata e senza un compagno. Proprio in ospedale, però, grazie alla foscoliana consonanza tra i vivi e i morti, ritrova uno sprazzo di luce nel buio, intravedendo un senso anche nella sua disperazione: e così si mette a ballare, come i medici e i parenti, abbracciata alla madre e con il sorriso sulle labbra, seguendo quel ritmo che cercava all'inizio del film, lo stesso ritmo cantato da Raf (Infinito, Sei la più bella del mondo) in Battito animale (1993) e da Paolo Vallesi (Non andare via, Il cielo di Firenze) ne La forza della vita (1992). è un simbolo di catarsi anche l'imprevista gita al centro commerciale di tutti gli impiegati della Multiple Italia, rimasti senza lavoro dopo l'arresto, avvenuto in loro presenza, di Daniela, che la sera prima ha ucciso Claudio, il capo, interpretato da Massimo Ghini (C'era una volta la legge, Segreti segreti, La sposa era bellissima), in ufficio, dopo aver scoperto che non l'amava e che non voleva un figlio da lei. Sereno, infine, il pranzo all'aperto, simile a quello della scena finale di Ritorno a Could Mountain (2003) di Anthony Minghella (Il paziente inglese, Il talento di Mister Ripley, Complicità e sospetti), di Marta, Sonja (Micaela Ramazzotti) e Lara (Giulia Salerno), che sogna di studiare filosofia, un altro segno di apertura alla speranza di un futuro diverso e migliore, a casa della signora Franca (Tatiana Farnese), cui Marta aveva detto, per ingraziarsela e farle comprare il prodotto, di essere una vecchia amica della nipote. Turbata, però, per aver scoperto che la ragazza si è suicidata per la mancanza di lavoro, e che l'anziana è stata derubata da Lucio, interpretato da un bravissimo Elio Germano (Mio fratello è figlio unico, Diaz, Nine), il venditore che conclude i suoi appuntamenti, si sente in colpa e le regala il compenso ricevuto per la pubblicazione del suo scritto sul confronto tra la filosofia di Martin Heidegger (1889-1976), le dinamiche di relazione tra le telefoniste di un call center e quelle dei protagonisti di un reality show, spettacolo amato dalle ingenue colleghe di Marta. Il furto, la rabbia, l'incidente d'auto che Lucio ha dopo la goliardica punizione per il pessimo risultato ottenuto in quel mese, le dimissioni, sogno segni dell'alienazione, magnificamene descritta in Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin (Il monello, La febbre dell'oro, Luci della città), cui portano quel tipo di lavoro e le sue assurde regole, che creano ansia, competizione e invidia, soprattutto durante le mensili premiazioni e richiami, che con canzoncine motivazionali, balletti propiziatori e messaggi della capo telefonista, Daniela, interpretata da una strepitosa Sabrina Ferilli (Tutti giù per terra, Tu ridi, La grande bellezza), giustamente pluripremiata, spingono ad essere disonesti nei confronti del possibile compratore. Tutto questo, insieme agli scorretti metodi di licenziamento, è il mobbing che il giovane sindacalista Giorgio Conforti, il bravissimo Valerio Mastandrea (Tutti giù per terra, Viola bacia tutti, N-Io e Napoleone), tenta inutilmente di combattere.
Sicuramente il film, in questa angoscia portata dagli eventi negativi che vi accadono, ha un che di bergmaniano: ma i segreti familiari e le misteriose ossessioni nordiche sono lontane da noi e ci sembrano più inverosimili, mentre la situazione di Marta potrebbe essere quella di tanti giovani.
Il montaggio di Esmeralda Calabria (Un giorno devi andare, Habemus papam, Il caimano), la fotografia di Nicola Pecorini (Parnassus, Tideland, Regole d'onore) e le musiche di Franco Piersanti (La nostra vita, La fisica dell'acqua, Fortapàsc) contribuiscono a rendere palpabile questo senso bressoniano di oppressione e prigionia, in quell'unione di stile e contenuti auspicata da Dario Tomasi (Letteratura e cinema, Manuale di storia del cinema).
Liberamente ispirato al libro Il mondo deve sapere (2006) di Michela Murgia (L'incontro, Presente, L'aragosta), ha vinto due Nastri d'Argento (Regista del Miglior Film e Migliore Attrice Non Protagonista), due Globi d'oro (Miglior Film e Migliore Attrice), quattro Ciak d'Oro (Miglior Film, Miglior Regia, Migliore Attrice Non Protagonista, Migliore Scenografia), oltre a varie nominations ai David di Donatello.
Gli altri temi del film sono l'amicizia (Di Marta e Sonja), il tradimento (l'avventura di Giorgio e Sonja), il rapporto genitori figli (Sonja e Lara, Marta e la madre malata di cancro, Claudio e i figli), l'amore, visto negativamente come sesso e bugie (il fidanzato di Marta le nasconde il desiderio di lavorare negli USA, Claudio inganna Daniela, Marta non ama Lucio, come Giorgio non ama Sonja) e il precariato, raccontato con ironia (il titolo) e lucido disincanto.
Altri film sul lavoro sono Il posto (1961) di Ermanno Olmi (Centochiodi, Cantando dietro i paraventi, Il mestiere delle armi), La classe operaia va in Paradiso (1972) di Elio Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Il maestro di Vigevano) e Il posto dell'anima (2003) di Riccardo Milani (Benvenuto Presidente, Piano-Solo).
Tutta la vita davanti dimostra che la commedia all'italiana può ancora raggiungere alte vette ed è capace di affrontare in modo serio ed insieme distaccato, i problemi attuali, anche i più scottanti.
Sicuramente il film, in questa angoscia portata dagli eventi negativi che vi accadono, ha un che di bergmaniano: ma i segreti familiari e le misteriose ossessioni nordiche sono lontane da noi e ci sembrano più inverosimili, mentre la situazione di Marta potrebbe essere quella di tanti giovani.
Il montaggio di Esmeralda Calabria (Un giorno devi andare, Habemus papam, Il caimano), la fotografia di Nicola Pecorini (Parnassus, Tideland, Regole d'onore) e le musiche di Franco Piersanti (La nostra vita, La fisica dell'acqua, Fortapàsc) contribuiscono a rendere palpabile questo senso bressoniano di oppressione e prigionia, in quell'unione di stile e contenuti auspicata da Dario Tomasi (Letteratura e cinema, Manuale di storia del cinema).
Liberamente ispirato al libro Il mondo deve sapere (2006) di Michela Murgia (L'incontro, Presente, L'aragosta), ha vinto due Nastri d'Argento (Regista del Miglior Film e Migliore Attrice Non Protagonista), due Globi d'oro (Miglior Film e Migliore Attrice), quattro Ciak d'Oro (Miglior Film, Miglior Regia, Migliore Attrice Non Protagonista, Migliore Scenografia), oltre a varie nominations ai David di Donatello.
Gli altri temi del film sono l'amicizia (Di Marta e Sonja), il tradimento (l'avventura di Giorgio e Sonja), il rapporto genitori figli (Sonja e Lara, Marta e la madre malata di cancro, Claudio e i figli), l'amore, visto negativamente come sesso e bugie (il fidanzato di Marta le nasconde il desiderio di lavorare negli USA, Claudio inganna Daniela, Marta non ama Lucio, come Giorgio non ama Sonja) e il precariato, raccontato con ironia (il titolo) e lucido disincanto.
Altri film sul lavoro sono Il posto (1961) di Ermanno Olmi (Centochiodi, Cantando dietro i paraventi, Il mestiere delle armi), La classe operaia va in Paradiso (1972) di Elio Petri (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Il maestro di Vigevano) e Il posto dell'anima (2003) di Riccardo Milani (Benvenuto Presidente, Piano-Solo).
Tutta la vita davanti dimostra che la commedia all'italiana può ancora raggiungere alte vette ed è capace di affrontare in modo serio ed insieme distaccato, i problemi attuali, anche i più scottanti.