Il genere fantascientifico non è mai stato il mio preferito, ma Gravity (2013) di Alfonso Cuaròn (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, I figli degli uomini) è uno dei più bei film che ho visto: poca azione, dialogo essenziale e pregnante (anche il lessico sporco e realistico utilizzato nelle situazioni di pericolo), paesaggi mozzafiato, ottimi effetti speciali e una storia profonda e commovente che offre molti spunti di riflessione. L'odissea di Matt (George Clooney) e di Ryan (Sandra Bullock), astronauti che a causa di una tempesta di detriti (che ricorda quelli delle esplosioni in guerra) si ritrovano a fluttuare sospesi nel buio dello spazio senza shuttle né punti di riferimento (anche l'anima di Ryan, dopo la morte della figlia, è sospesa e smarrita), racconta la solitudine e la fragilità dell'uomo, l'angosciante silenzio della natura, e forse di Dio, nei confronti delle sue sofferenze. Il vorticoso viaggio dei due compagni, così vicino alla morte (i detriti uccidono tutti gli altri astronauti, uno dei quali ricorda la madre di Norman Bates in Psyco), alla ricerca della salvezza, però, metafora delle prove della vita, è anche un percorso interiore, la ricerca di sé stessi e di una visione diversa delle cose, che doni nuovo senso alla vita. E la seria disperazione di questo originale e poetico thriller, giustamente acclamato a Venezia, lascia posto all'ironia, all'ottimismo e alla speranza, come dimostrano il sacrificio di Matt, novello Virgilio che guida dal buio ala luce, e la contre - plongée finale, simbolo di rinascita e salvezza, ricordate anche dall'acqua, purificatrice, in cui Ryan precipita.
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